“Ogne gghiuorno è taluorno” dall’antico “Ogne ghiurno è taluorno” è un’espressione oramai utilizzata nel napoletano, e storpiata in questo periodo in cui sembra che facciamo (e forse è vero) le stesse identiche azioni. L’espressione infatti è legata quindi alla ripetizione costante e fastidiosa, specialmente quando ci si mettono d’impegno. In verità è usata, e lo era moltissimo una ventina d’anni fa per indicare e per redarguire qualcuno che fa di tutto per infastidire o che continua imperterrito a parlare di un argomento poco gradito.
Il primo utilizzo trascritto della parola ‘taluorno’, come “ripetizione come fastidio”, metaforicamente parlando lo troviamo ne “Lo Cunto de li Cunti overo lo trattenemiento de peccerille” il pentamerone di Giambattista Basile. Nell’opera, infatti, troviamo questo detto “ogne gghiuorno è taluorno” e, quindi, si può preporre che nel XVI secolo, il termine veniva giù utilizzato nell’uso quotidiano dei napoletani.
Ma “taluorno” da dove deriva? Vuol significare davvero “tale-giorno”?
L’origine in verità è di tradizione molto antica, risalente alle prime civiltà umane. Presso gli antichi romani, infatti, la prèfica (dal latino praefica, ovvero messa a capo) era la donna che veniva pagata per piangere e lamentarsi durante i funerali; questa usanza ancora sopravvive in alcune aree mediterranee europee; scherzosamente la voce è usata, oggi per indicare anche una persona che si lamenti per nulla. Non a caso sia in Puglia che in Campania, (soprattutto nel napoletano) ‘o talùernu, taluòrno o talòrno, designava la veglia funebre in cui erano protagoniste delle vere e proprie professioniste del lamento che, a pagamento, accompagnavano con il loro “canto” il defunto nell’ultimo viaggio. In Puglia già dal mondo greco e poi romano questo rito veniva chiamato “lu taluèrno”.
E se per il Gerhard Rohlfs (glottologo e filologo) il termine si limita a rinviare a latuèrnu usato col significato di piagnisteo, lamentela, suono noioso, seccatura nel Brindisino e nel Tarantino, in altre zone si usa per indicare il coro della figliata dei femminielli; al Centro Italia ritorna in alcuni casi ‘latorno’ ovvero lamento.
Altri significati li prende nel dialetto neretino-salentino con l’assunzione di significato di ‘oggetto inutile’, ingombrante: “llende ti miènzu ‘stu taluèrnu!”, cioè togli di mezzo quest’oggetto che dà fastidio!; così che viene legato alla persona assillante e fastidiosa, “mamma, cce ttaluèrnu ca sinti!”, ovvero mamma, che seccatore che sei!.
Scrive il prof. Armando Polito, che il termine con il passaggio della liquida inziale L in R, dal termine ratuèrnu, corrispondente all’italiano ritorno, attraverso un’analisi, molto attenta, delle inflessioni e delle radici e suffissi delle parole, con chiari e specifici esempi di testi classici e medioevali fino a quelli barocchi.
Certo che per noi resta, soprattutto in questo periodo un’amara e rassegnata concezione della vita, v’è indubbio che se legata al funerale, direi che sarebbe il caso di cambiare il termine o proverbio da utilizzare (almeno per il periodo) potremmo dire “Ogne gghiuorno è nate gghiuorno”!
Anche perché nella celebre Funiculì funiculà di Luigi Denza e Peppino Turco del 1880, la canzone dice: “Lo core canta sempe ‘no taluorno: Sposammo, oi’ Ne’!… Sposammo, oi’ Ne’!”, ovvero Il cuore canta sempre una cantilena: Sposiamoci, o Nina…Sposiamoci, o Nina!, e posso solo immaginare cosa avrebbe risposto Nina se avesse conosciuto l’origine funeraria primitiva del significato della parola taluorno…
… non sarebbe certamente stato lo stesso giorno!