Nel contesto culturale la parola d’ordine è ormai “innovazione”, necessaria in un settore che non può permettersi di rinchiudersi nella sua gabbia d’oro ma che, per raccogliere nuovo pubblico e mantenere quello fidelizzato, deve costantemente reinventarsi.
L’innovazione, però, non può essere innescata se alla base del processo non c’è una struttura che regge, una solidità non solo intellettuale (con tutto il bagaglio di competenze e valore umano), ma anche e soprattutto fisica.
Moltissimi siti archeologici e musei italiani, se si escludono alcuni grandi casi, versano in condizioni critiche per insufficienza o assenza di manutenzione legate, la maggior parte delle volte, a mancanza di fondi che sostengano l’espletamento di tali operazioni ordinarie.
Va da sé, pertanto, che la mancanza di cura, restauro e conservazione non solo diventino, nei casi più critici, minaccia per la sopravvivenza stessa del bene, ma portino anche, a lungo andare, a peggiorare le condizioni di visita e di sicurezza, e quindi d’interesse, del pubblico per la perdita di armonia, benessere ed evasione di cui un bene culturale, in virtù della sua essenza, dovrebbe essere insegna.
Un triste caso, prossimo alla memoria della cronaca, è quello di Villa Ebe, a Napoli, costruita dall’architetto Lamont Young nel 1922 sulla falsariga del Castello Aselmayer, per anni ostaggio di abbandono e incuria e i cui resti, oggi, sono stati dichiarati drammaticamente irrecuperabili. Gioiello e uno dei simboli dell’architettura neogotica partenopea, ma anche oggetto di diversi atti vandalici, da anni mandava fatiscenti gridi d’aiuto; dopo l’incendio doloso che l’ha vista protagonista nel 2000, erano stati approvati dei fondi e un bando di gara da destinare al restauro del sito, ma il comune di Napoli aveva fermato i lavori, inserendo il palazzo tra le proprietà in vendita del comune, cambiando poi idea.
L’ostruzionismo amministrativo e l’immobilismo decisionale si sono alternati negli anni, mentre il processo di degrado delle fondamenta della Villa si consumava, raggiungendo oggi il punto di non ritorno, il compimento di una “morte annunciata” che genera tanta amarezza e forse pochi, reali, rimorsi.
Ormai lo slogan tanto diffuso del “Non può esserci futuro se non si guarda al passato” dovrebbe aver tanto permeato le nostre coscienze in ogni ambito di vita, professionale e di pensiero, da prendere questo assunto come base di ogni azione volta alla crescita.
Eppure, fino ad oggi, il messaggio sembra essere arrivato non privo di interferenze e a pagarne sono i simboli di un patrimonio materiale e immateriale che sono da sempre il biglietto da visita del nostro Paese nel mondo.
La speranza di un cambiamento di rotta in questo senso risiede nelle parole del Neopremier Mario Draghi, che si è espresso in merito alla preservazione e tutela di città e siti d’arte sottolineando che il nostro turismo avrà un futuro se non dimentichiamo che esso vive della nostra capacità di preservare città d’arte, luoghi e tradizioni.
L’innovazione che tende al futuro deve quindi avere, come suo polo opposto, la conservazione attiva del passato. Entrambe le azioni devono costituire i due estremi di un continuum, di un processo culturale illuminato che riparta sempre dalle sue fondamenta.
Serve, per questo, una gestione sostenibile dei fondi di volta in volta a disposizione che permetta l’innesco di un processo di mantenimento del passato e di adattamento al presente finalizzato alla sopravvivenza e alla crescita del patrimonio.
La filiera culturale deve avere, come missione prima, la generazione costante di nuove sfide, nuovi approcci al fare e vivere cultura, nuovi stimoli al pensiero critico e creativo e, non ultimo, un impatto sociale ed educativo che sia sempre nuovo ma fedele alla sua missione profonda; alla base di questo processo virtuoso, però, deve esserci una corretta e sistemica manutenzione di siti, oggetti, beni materiali e immateriali attorno ai quali ruota l’esperienza culturale.
Nella giornata di mercoledì Massimo Osanna, ex direttore del Parco Archeologico di Pompei (che ha gestito per sette anni) e attualmente capo della direzione musei del Ministero della Cultura, durante l’inaugurazione dell’anno accademico della Scuola di Specializzazione in Beni Architettonici dell’Università Federico II di Napoli, ha dichiarato la volontà, tra le sfide del suo mandato, di portare le best practice pompeiane in tutti i musei e i siti archeologici italiani, con progetti di manutenzione programmata che deve essere esteso a tutti i siti.
E ancora, in riferimento all’allocazione dei fondi del Piano di Ripresa e Resilienza “Next Generation Italia” (Recovery Plan) nel settore culturale, che è necessario avviare le operazioni di manutenzione in tutti i parchi archeologici e i musei, avvalendosi anche dei fondi del Recovery Plan, poiché ovunque serve un intervento sistematico e la digitalizzazione dei dati.
Proprio la digitalizzazione rientra tra le condizioni imposte dall’Unione Europea per lo stanziamento dei fondi del Piano Nazionale di Ripresa. E, se si vuole creare un cambiamento che sia duraturo e di impatto, dovrà essere proprio il digitale ad accompagnare la manutenzione strutturale dei beni culturali, con l’adozione di nuove tecnologie applicate alla conservazione, documentazione e restauro che portino a risultati nuovi, sia in termini di sopravvivenza fisica dei siti culturali che di engagement e migliori condizioni di accessibilità per tutte le fasce di popolazione, in un continuo passaggio dal fisico al digitale e dal digitale al fisico.