Era il 17 febbraio 1600, e lì, nel Campo de’ Fiori a Roma, un monaco, veniva arso vivo. Il giorno precedente, aveva pronunciato contro la Chiesa: «Maiori forsan cum timore sententiam in me fertis quam ego accipiam» («Forse tremate più voi nel pronunciare contro di me questa sentenza che io nell’ascoltarla»). Lui era Giordano Bruno.
Perché ricordarlo proprio ora? Perché a distanza di 420 anni sembrava doveroso raccontare ai più giovani di questo personaggio, ed in particolare degli anni vissuti a Napoli.
Nato a Nola nel 1548, Filippo Bruno (o Bruni secondo il cognome della famiglia) crebbe sotto lo sguardo vigile dei genitori, e validi precettori gli garantirono un’eccellente formazione filosofica.
Da ragazzo venne nella capitale del Viceregno Spagnolo, ovvero Napoli, per seguire le lezioni di lettere, logica e dialettica presso il Sarnese e l’agostiniano Teofilo da Vairano, e sono di questi anni i primi approcci all’aristotelismo e alla cosmologia. Gli studi seguirono presso il Convento di San Domenico Maggiore, nel cortile dove vi era lo Studium fondato da Tommaso d’Aquino e una ricchissima biblioteca. Sia per poter approfondire la sua istruzione e alleggerirsi dalle spese, che per cercare l’ascetismo vista la caotica città in cui si trovava, a 14 o 15 anni prese i voti con il nome di Giordano. Ma nel convento domenicano di Napoli visse con confratelli che negli anni furono condannati per furto, sodomia, concussione e prostituzione, addirittura alcuni per omicidio. Forse proprio questa facilità al peccato portò il giovane ad allontanarsi dalla Chiesa, non ancora veramente riformata, generando in lui un malcontento che sfocerà in vari episodi, tra cui uno dei più famosi a noi narrati dallo stesso Bruno al processo. In quell’occasione il nolano butta via le immagini dei santi in suo possesso, conservando solo il crocefisso e invitando un novizio a disfarsi della Historia delle sette allegrezze della Madonna, una modesta operetta devozionale, per sostituirlo magari con lo studio della Vita de’ santi Padri di Domenico Cavalca. Episodio che, pur conosciuto dai superiori, non provocò sanzioni nei suoi confronti. Nel 1573 fu ordinato sacerdote e nel 1575 si laureò in Teologia con due tesi su Tommaso d’Aquino e su Pietro Lombardo. In questi anni altre diciotto condanne dei suoi confratelli a San Domenico, ne fece aumentare il disprezzo nei loro confronti, ai quali soprattutto rimproverava la mancanza di cultura.
Nacque così nel 1582 l’opera, commedia in 5 atti, il Candelaio proprio per un suo confratello, un fra’ Bonifacio da Napoli, candelaio, ossia sodomita. Tuttavia, restare a formarsi nel convento di San Domenico Maggiore, era fondamentale per la ricchezza della sua biblioteca, riuscendo a procurarsi in quegli anni, anche libri vietati quali quelli di Erasmo da Rotterdam.
L’esperienza conventuale fu per lui decisiva, leggendo di tutto e anche di nascosto, da Aristotele a Tommaso d’Aquino, da San Gerolamo a San Giovanni Crisostomo, da Marsilio Ficino a Raimondo Lullo e Nicola Cusano. Riuscì anche a conoscere e probabilmente a seguire, alcuni dei grandi filosofi dell’epoca come Giambattista Della Porta, nonché alcune Accademie come quella Pontaniana continuata dopo la morte del fondatore. Proprio la sua libertà di pensiero e il peso dell’oppressione dogmatica della Chiesa lo portò a riferire, nel 1592, ad un frate i suoi dubbi sulla Trinità, o meglio considerando il Figlio l’intelletto e lo Spirito l’amore del Padre o l’anima del mondo, non dunque persone o sostanze distinte, ma manifestazioni divine. Denunciato da frate Agostino al padre provinciale Domenico Vita, si costituì contro di lui un processo per eresia, che lo portò a riparare a Roma. Da qui iniziò il lungo percorso di formazione del frate nolano, che dovrà molte volte spogliarsi dell’abito per nascondersi. Fu in prigione in Francia, ma fu anche Professore di Cattedra in molte città europee. Nel frattempo numerosi furono gli incontri con grandi nomi e nuovi pensieri filosofici, fino al tradimento veneziano da parte del nobile Mocenigo che lo ospitava. Arrestato e inquisito, processato e condannato a morte, Giordano Bruno lasciò ai posteri un’eredità scomoda, un’apertura filosofica che tutt’ora non può essere diffusa e quindi viene coperta dalla cenere della Damnatio Memoriae. Nel 2000 la nuova lettura data da San Giovanni Paolo II sulla Natura e Dio, fu impregnata della filosofia giordaniana ma ancora la Chiesa non gli attribuisce alcun merito o ricordo. Per Giordano Bruno Dio è trascendenza, egli vive ed è l’Universo stesso, e questo è parte di Dio; se Dio è in tutte le cose allora Dio stesso è tutti gli universi e i mondi, quindi, Dio è Natura e la Natura è Dio. Inoltre, Dio in quanto supera straordinariamente la natura, ma nello stesso tempo è connaturato, la Natura e Dio divengono insieme anima del mondo e perciò sono la stessa cosa e sono da amare alla follia, perché l’infinità di Dio è nell’infinità dei cosmi, dei mondi, degli universi, nella sostanza delle cose e in tutti gli esseri creati. Dio è quindi immanente, ovvero egli risiede nell’essere, ha in sé il proprio principio e fine e, facendo parte dell’essenza di un soggetto, non può avere un’esistenza da questo separata. Bruno fu portato al supplizio dopo un processo per eresia durato ben otto anni, in cui la Santa Inquisizione lo costrinse in catene e forse sottopose anche a tortura fisica. Quell’uomo aveva aperto nuove frontiere del pensiero in tutta Europa, dando impulso alla “Nova Filosofia”, nutrendo ed ispirando con le proprie idee personaggi come Bacon, Fludd, Newton ed Ashmol e secondo alcuni studiosi ebbe un ascendente diretto anche nel pensiero di William Shakespeare. Il Nolano non negò di aver professato le opinioni imputate, e chiese una forma di confronto, razionale e ragionato, improntata su criteri di disquisizione filosofica: il terreno su cui sperava di salvarsi. L’Inquisizione, però, non accolse la richiesta di confronto, imponendogli una semplice alternativa: abiura totale o condanna. Giordano Bruno, dopo 22 udienze e otto memoriali difensivi, scelse la condanna.
Ma come sappiamo dalla storia, i membri della Chiesa non potevano uccidere o far uccidere i condannati e quindi utilizzavano la formula di mitigazione della pena, un ipocrita artificio legale, proprio di ogni sentenza di morte, che produceva infatti l’automatica esecuzione dell’imputato, la cui sorte passava nelle mani dell’Autorità civile, che però dipendeva direttamente da quella religiosa. Con questa sentenza ne fu decretata la morte: “Giordano Bruno, eretico impertinente, ostinato, per essere incorso in tutte le censure ecclesiastiche e pene dalli sacri canoni, leggi e costituzioni, di qui condanniamo ad essere scacciato dal nostro foro ecclesiastico e dalla nostra santa ed immacolata chiesa della cui misericordia ti sei reso indegno. Ti rilasciamo alla Corte secolare del Governatore di Roma perché ti punisca, pregandolo però di mitigare il rigore della pena che non sia pericolo di morte o di mutilazione. Ordiniamo che tutti i libri scritti dal frate siano guasti e abbrugiati, posti all’indice”.
Quel fumo e quelle fiamme che mondarono Clemente VIII e la sua Chiesa, nonché la Santa Inquisizione dalla libertà del pensiero di quell’uomo, crearono invece un seme che germogliò in quella piazza romana così come in tutte le città in cui lasciò il segno il nolano, Giordano Bruno, definito il Martire del Libero Pensiero e per il quale la Chiesa, dovrà ancora fare ammenda.