In questo periodo così ‘acceso’ di discussioni, per la tremenda pandemia che si è divisa in un’infezione fisica e virale e in quella sociale ed economica, oggi voci ‘scontate, aggressive, fuori tono’ alimentano irritazioni e rabbia che porta ad ‘appestare’ ulteriormente l’animo stanco e ferito della popolazione.
Una situazione che richiama alla memoria un detto popolare che è stato utilizzato volgarmente e con disprezzo. Addirittura sui social, a volte scurrili, lo si usa per attirare pubblico, dandone una sommaria spiegazione.
Si deve ricercare e capire, rileggere nel contesto popolare e storico, di tradizione ed antropologico, senza scandalizzarsi rimanendo relativisti, la nascita di questa esclamazione popolare (anche se essa usa termini scurrili, o si vuole farli passare per tali).
“Nun mettere ‘o pepe ‘nculo ‘a zoccola”, che letteralmente significa “non mettere il pepe nell’ano del ratto”, viene utilizzato per intendere non sobillare, mettere zizzania, istigare, aizzare l’uno contro l’altro, scatenare una lotta.
Si riferisce ad una pratica in uso nel pieno del 1600 per tentare di combattere la peste, della quale i topi erano portatori. A Napoli ci furono 400.000 morti su 600.000 abitanti, in pratica morirono due napoletani su tre, oggi testimonianza molti corpi nei cimiteri della città (esempio Cimitero delle Fontanelle), o visibile nel dipinto di Micco Spadaro (alias Domenico Gargiulo) esposto alla Certosa Museo di San Martino a Napoli. Questi ratti, nascosti nelle profonde fogne cittadine, dovevano necessariamente essere uccisi. Così si escogitò lo stratagemma di catturare dei grossi topi ed incattivirli, introducendo del pepe (spezie simili) nel sedere che poi veniva cucito. Nessun dubbio che la pratica era discutibile per il maltrattamento degli animali, ma all’epoca ritenuta necessaria. Questi liberati nelle fogne raggiungevano gli altri topi ed inferociti, sofferenti, aggressivi li ammazzavano. Tale pratica sembra derivasse da quella già in uso sui bastimenti mercantili e navi alla fine del 1500, dove i marinai la utilizzavano per uccidere i roditori che si introducevano nelle stive insieme alle merci.
In verità, il sistema non funzionò a Napoli, e poco dopo il popolo, il 15 agosto 1656, ‘lesse’ nella tempesta di pioggia, quasi un diluvio, la salvezza, infatti i topi nelle fogne morirono annegati e a ricordo di questo evento fu eretta una statua di San Gaetano con una lapide commemorativa: “ad pestae liberatum“. Qui il popolo vide l’intercessione di San Gennaro e di San Gaetano che per sconfiggere la peste, chiesero l’intervento alla Madre Santa Vergine, come ricordano vari dipinti (in particolare quello di Luca Giordano, oggi alla mostra al Museo di Capodimonte).
Da allora e fino ad oggi il ‘detto’ è rimasto nella memoria e viene usato quando bisogna descrivere il comportamento scorretto di qualcuno, che invece di metter pace, malignamente o meno gode nell’alimentare il fuoco della discussione. Ovvero aggiunge ‘sapori forti’ che infiammano come il pepe, ma subdolamente di nascosto, rendendo aggressivi chiunque ne diviene vittima.