In conseguenza degli avvenimenti che decretarono la fine del Regno delle due Sicilie, Napoli e il Sud furono abbandonati al proprio destino. Almeno fino alla grandiosa operazione chiamata “Risanamento”, dopo decenni di miseria e di abbandono, descritti con lucidità e compassione da Matilde Serao nella sua mirabile opera “Il ventre di Napoli”.
La città ha urgente bisogno, di rinnovamento e bonifica. La popolazione, ormai mezzo milione di abitanti, vive in gran parte nei bassi, nei fòndaci, nei vicoli stretti, malsani e privi di aria e di luce. Mancano acquedotti e una rete fognaria adeguata. In questo contesto sociale così degradato allignano prostituzione, delinquenza, accattonaggio, camorra e il pericolo sempre vivo di epidemie. Accanto a una Napoli paradisiaca, descritta nei classici canori e musicali dell’epoca convive la Napoli della miseria e della disperazione.
Come ci dicono questi toccanti versi del poeta Pasquale Ruocco:
No, nun ‘e state a sentere ’e canzone!/ Chistu mare è celeste, ‘o cielo è d’oro,
ma stu paese nun’ è sempo allèro,/ nun spònta sempe ‘a luna a marechiaro/
e nun se canta e se fa sempe ammore,/ cheste so’ fantasie p’ ‘e furastiere/
Si vulite bbene a stu paese,/ fermateve nu poco dint’e viche,
guardate dint’ e vasce e for’’e chiese /venite ‘nzieme a mmè, p’’e strade antiche
invece e cammenà vicin’o mare,/ parlate cu chi soffre e chi fatica.
Quanta malinconia pe’ case scure,/ addò nun tràse st’aria e primavera!/
Guardate quanta sante ‘nfacc’e mure!/ Sta gente, puverèlla, crere a Dio,
patisce rassìgnàta e pare allèra,/ e chi è cecàto canta: O sole mio!
N’hanno chiagnùte lacrime ‘sti criste,/ e quante ne so’ morte int’o spitàle!
‘Stu paese d’’o sole cumm’è triste!/ Je veco ‘e cammenà n’ombra ‘ a ogni puntòne
e penzo ‘a gènte che le manca ‘o pane…/ Quanta buscie ca’ diceno ‘e canzone.
I governi cittadini, succedutisi all’epoca, dal 1868 al 1878, per mancanza di fondi e incapacità politica, non riescono ad attuare un’efficace opera di bonifica ma ecco che il pericolo di epidemie si fa concreto: il vibrione del colera, affezionato alla città, torna a visitare Napoli e colpisce soprattutto i quartieri Mercato, Pendino e Porto. Questa ennesima tragedia porta finalmente il governo ad agire radicalmente per il risanamento di Napoli. Il sindaco Nicola Amore sollecita presso il re Umberto I e il primo ministro Agostino De Pretis un intervento urgente.
“Bisogna operare lo sventramento” annuncia il De Pretis. Non c’è più tempo da perdere.
Viene approvata la legge nel gennaio del 1885, ma solo il 15 giugno del 1889 è posta la prima pietra.
Ma, come poi denuncia la Serao, l’opera si limita alla costruzione di sontuosi palazzi con la creazione dell’attuale Rettifilo, della piazza dei Quattro Palazzi e di parte dell’attuale Corso Garibaldi. Tali edifici non sono certo alla portata dei ceti popolari. Rimangono in piedi i tuguri della zona del porto. Insomma si crea un’altra contraddizione tra le due facce della città: quella plebea contrapposta a quella “signorile”.
Persiste il malessere economico e sociale con l’aumento del costo della vita, triplicato rispetto all’epoca preunitaria, mentre i salari sono solo raddoppiati.
E comincia il massiccio fenomeno dell’emigrazione, per sfuggire alla fame e alla miseria.
Francesco Saverio Nitti indica nell’industrializzazione la ricetta per risanare economicamente la città. Ciò avviene agli inizi del XX secolo, soprattutto nella zona orientale.
Sembra che Napoli si sia finalmente gettata alle spalle un periodo fosco. Niente di tutto questo, purtroppo. Per una città avvezza alle sofferenze, ecco un altro colpo che il destino le riserva.
Arriva la mazzata della I Guerra Mondiale che interrompe la produzione di manufatti nei vari settori merceologici a favore della riconversione degli stabilimenti in opifici per la produzione bellica. Operai e contadini, per lo più analfabeti vanno al fronte; poveri soldati allo sbaraglio.
Quelli che torneranno, reclameranno il posto di lavoro che occupavano prima di partire. Nella maggior parte dei casi non lo riavranno. La nazione esce da una guerra cruenta, costata più di 600.000 vittime tra i soldati e altrettante tra i civili, per azioni militari, fame, indigenza, riceve il colpo finale: l’influenza “spagnola” (che miete 300.000 vittime).
Il Paese ripiomba nella povertà e gli effetti peggiori si avvertono, ancora una volta, al Sud.