Ad un anno dall’inizio della pandemia di SARS-CoV-2, numerosi sono stati gli studi per trovare cure efficaci contro gli effetti della malattia COVID-19 sull’organismo umano.
In particolare, tra le diverse scoperte in ambito medico, già dai primi mesi della diffusione del virus è sembrato che la somministrazione di farmaci anti-reumatoidi, in particolare il tocilizumab, contrastasse in molti pazienti gli effetti più gravi dell’infiammazione causata dalla COVID-19.
Il tociluzumab è un anticorpo monoclonale umanizzato (MAb), sviluppato in laboratorio dalle case farmaceutiche La Roche e Chugai per trattare l’artrite reumatoide e immesso nel mercato con i nomi Tocilizumab, Actemra e RoActemra.
Il tocilizumab interagisce con l’interleuchina 6 (IL-6), una proteina (citochina) che gioca un ruolo attivo nei processi infiammatori di molte malattie e che aumenta in quantità in un organismo affetto da artrite reumatoide: legandosi alla IL-6, il farmaco non permette alla proteina di agire, riducendo così gli effetti della malattia.
Di norma, le citochine, in caso di sopraggiunta infezione, hanno il compito di avvisare il sistema immunitario della presenza di un patogeno, stimolando le cellule immunitarie a produrre nuove citochine per velocizzare la rilevazione dell’infezione e, di conseguenza, la risposta immunitaria.
In casi di infezione molto gravi, il normale funzionamento del meccanismo fisiologico di regolazione delle citochine può venire meno e innescare una produzione incontrollata di tali proteine, con conseguente aumento spropositato di cellule immunitarie in un solo punto del corpo.
Ma cosa c’entra tutto questo con l’infiammazione da COVID-19?
Nel caso del COVID-19, la sovra-produzione incontrollata di citochine avviene nei polmoni, determinando un accumulo di fluidi che bloccano le vie respiratorie.
Nei primi mesi della pandemia causata dal SARS-CoV-2, un gruppo di ricercatori in Cina ha condotto una sperimentazione sull’utilizzo del tocilizumab come agente frenante dell’infiammazione nei casi più gravi di COVID-19; trattamento poi ripreso e sperimentato per la prima volta in Italia a Napoli, a marzo 2020, nell’ambito di una collaborazione tra l’Azienda Ospedaliera dei Colli (Ospedale Monaldi), l’Istituto nazionale dei tumori “Fondazione Pascale” e l’Università di Scienze e Tecnologia della Cina.
Nei mesi successivi alle prime promettenti sperimentazioni, gli studi sono andati avanti e hanno portato luci ed ombre sulla possibilità di utilizzare il farmaco sui pazienti ospedalizzati per polmonite grave da COVID-19.
La mancata univocità sull’efficacia del tocilizumab in pazienti gravi da COVID-19 ha ovviamente condotto, negli scorsi mesi, ad ulteriori ricerche in tutto il mondo.
Negli ultimi giorni, dati incoraggianti vengono da un nuovo studio prodotto nel Regno Unito da REMAP-CAP, gruppo di ricerca dell’Imperial College di Londra, che ha riportato risposte positive sull’efficacia del tocilizumab (Actrema) e del sarilumab (Kevzara) nel ridurre, in pazienti gravi, la mortalità e il tempo di degenza in terapia intensiva.
Il campione del test comprendeva pazienti adulti affetti da forme gravi di COVID-19, in terapia intensiva obbligati a ventilazione meccanica e/o con danni ad organi. Entro 24 ore dall’entrata in ricovero intensivo, veniva somministrato, in maniera randomica, o tocilizumab (8mg/kg) o sarilumab (400mg) o cure standard (gruppo di controllo).
Del campione testato, 353 pazienti sono stati trattati con tocilizumab, 48 con sarilumab e 402 con terapia standard.
I risultati dovevano tener conto, per misurare l’efficacia del test, della combinazione di due dati: tasso di mortalità in ospedale e tempo di uscita dalla terapia intensiva.
A seguito del monitoraggio di 21 giorni su pazienti in sei paesi diversi, l’utilizzo di tocilizumab e sarilumab è risultato proficuo.
La media di uscita “anticipata” dalla terapia intensiva è stata di 10 giorni prima con tocilizumab e 11 con sarilumab rispetto a quella dei pazienti curati con terapia standard.
La mortalità ospedaliera è risultata essere, invece, del 28% con tocilizumab, del 22,2% con sarilumab e del 35,8% con cure standard.
I risultati della seconda sperimentazione hanno tutti confermato e supportato i primi risultati.
La prima conclusione dello studio di REMAP-CAP è quindi stata che in pazienti critici affetti da COVID-19 in terapia intensiva con ventilazione assistita, il trattamento con tocilizumab e sarilumab porti risultati positivi in termini di durata (più breve) di ricovero in terapia intensiva e diminuzione della mortalità.
Anthony Gordon, responsabile di Anestesia e Terapia Intensiva dell’Imperial College di Londra, ha dichiarato che i risultati potrebbero avere “implicazioni immediate per i pazienti più malati con COVID-19. Questo spiega perché è importante condurre ampi studi randomizzati controllati e che le prove in tutti gli studi vengano prese in considerazione quando si prendono decisioni terapeutiche per diversi gruppi di pazienti”.
Anche il Ministro della Salute britannico Matt Hancock si dice positivo riguardo lo studio inglese: “Questi risultati sono un ulteriore sviluppo fondamentale nella ricerca di una via d’uscita da questa pandemia e, se aggiunti all’arsenale di vaccini e trattamenti già in uso, giocheranno un ruolo significativo nella sconfitta di questo virus”.
Come sempre, però, quando vengono condotti studi sperimentali, va tenuto conto anche dei controcanti, quindi di ricerche che sollevano dubbi e contraddizioni sui dati riportati.
Uno studio condotto in Brasile, precedente a quello britannico e riportato dal British Medical Journal, ha, infatti, riportato un aumento del numero di decessi a 15 giorni dalla somministrazione del tocilizumab in pazienti gravi.
Il gruppo di ricerca brasiliano ha anch’esso condotto una sperimentazione con somministrazione del farmaco in maniera casuale al campione testato, confrontando i risultati dei pazienti gravi curati con tocilizumab associato alla terapia standard con quelli di pazienti curati solo con terapia standard.
Il campione prevedeva 129 adulti (media 57 anni) affetti da gravi forme di Covid-19 e ricoverati in nove ospedali in Brasile tra maggio e luglio 2020, con ventilazione assistita. A 65 di questi è stato somministrato il tocilizumab assieme alle cure standard, mentre a 64 le sole cure standard; tutti i pazienti sono poi stati monitorati per 15 giorni.
Alla fine del monitoraggio, il 28% dei pazienti curati con tocilizumab e il 20% di quelli con cure standard erano ancora sottoposti a ventilazione assistita o sono morti. In particolare, si sono verificati 11 decessi nei pazienti del gruppo che ha assunto tocilizumab rispetto a soli 2 nel gruppo di cure standard.
I risultati legati alla mortalità hanno chiaramente destato preoccupazioni e portato all’interruzione della sperimentazione, nonostante in entrambi i gruppi testati i pazienti fossero molto malati e i decessi siano stati attribuiti ad insufficienza respiratoria o al collasso di organi.
I ricercatori dello studio, nonostante i dubbi e le diffidenze nei confronti dell’assunzione del tocilizumab, hanno ammesso che il loro studio presenta delle limitazioni, legate alle piccole dimensioni del campione testato, variabile che influisce sulla possibilità di avere un quadro più completo dell’effetto reale del farmaco su diversi tipi di organismo e di casi clinici.
Joao Prats, ricercatore di malattie infettive presso l’ospedale di San Paolo BP e coautore dello studio, ha così concluso: “Non abbiamo ancora trovato la popolazione che potrebbe beneficiare del farmaco. Potrebbe essere necessario combinare il farmaco con qualcos’altro o concentrarsi su gruppi di pazienti più strettamente definiti”.
In conclusione, la comunità scientifica rimane cauta nel prendere posizioni assolute e afferma comunque la necessità di condurre studi più ampi e diffusi per valutare l’effettiva efficacia sistematica del tocilizumab per ridurre il tasso di mortalità da COVID-19 tra i pazienti più gravi.
Martin Landrey, professore di Medicina ed Epidemiologia all’Università di Oxford, afferma infatti che “non abbiamo prove sufficienti per sapere, prima di tutto, in modo convincente se il trattamento funziona o meno. Vale la pena aspettare alcune settimane prima di prendere decisioni definitive su quale sia esattamente il ruolo di questo farmaco”.