Efferato delitto nel palazzo Sansevero in piazza San Domenico Maggiore. Il principe Carlo Gesualdo fa uccidere la giovane moglie Maria d’Avalos e il suo amante il duca d’Andria Fabrizio Carafa. Si accanisce con un pugnale deturpando i corpi dei due amanti e li fa esporre nudi e straziati sul portone d’ingresso del palazzo a difesa del suo “onore”
“Piangi, Napoli mesta in bruno ammanto,
Di beltà, di virtù l’oscuro accaso
E in lutto l’armonia rivolga il canto”
(Così Torquato Tasso scriveva dopo l’atroce delitto.)
Da allora, nelle notti senza luna, l’ombra evanescente della “dama nera” riappare, muta. Si aggira silenziosa, dolente, e il suo incedere sembra riecheggiare per gli oscuri vicoli circostanti. Leggenda o verità, il ricordo della vicenda si è perpetuato a lungo anche dopo che nella notte del 28 settembre 1889, per infiltrazioni d’acqua, crollò la parte del palazzo dove si trovava la camera da letto in cui avvenne l’omicidio.
“Piangete o Grazie, e voi piangete Amori…
…la bella e irrequieta Maria.
Sono passati quattrocento anni ma la storia di questa tragedia affascina e intriga ancora, al pari degli amori drammatici di Paolo e Francesca, Giulietta e Romeo, Otello e Desdemona. Una storia tanto morbosa e misteriosa che nel 1829 (dopo oltre due secoli dagli avvenimenti) viene ordinato “lo bruciamento delle processure penali” relative al caso Gesualdo, tanto continuava a esser vivo l’interesse per l’accaduto.
Premessa
Correva l’anno 1586, Carlo aveva sposato una cugina di primo grado, Maria d’Avalos, una delle donne più belle e sensuali di Napoli, figlia del conte di Montesarchio. Carlo aveva 20 anni e Maria 26. Poiché erano cugini per celebrare il matrimonio occorse la dispensa del Papa Sisto V. Per Maria erano le terze nozze; si diceva che Federigo, il primo marito, fosse morto “per la troppa attività di letto…“Ma la differenza di età, gli interessi culturali diversi, il fascino inesistente del principe, il matrimonio imposto da interessi familiari, portarono ben presto la bella Maria fra le braccia di uno degli uomini più belli della città conosciuto in una festa da ballo, Fabrizio Carafa, duca d’Andria e conte di Ruvo, detto per la sua avvenenza “l’arcangelo”. Fu subito amore, benché anche questi fosse sposato con Maria Carafa e padre di quattro figli. La tresca continuò per diverso tempo. Era sulla bocca di tutti, solo il principe fingeva di non vedere e di non sentire.
I Protagonisti :
Donna Maria d’Avalos – “la dama nera”
Don Carlo Gesualdo -“Il principe musico”
Il duca d’Andria Fabrizio Carafa – “L’arcangelo “
Maria d’Avalos “la dama nera”
Maria d’Avalos – Una delle donne e più sensuali dell’epoca, già a 16 anni la sua bellezza faceva “impallidire gli angeli” era figlia del Principe Carlo di Montesarchio e donna Sveva Gesualdo. Sua nonna paterna era Maria d’Aragona suo nonno Alfonso (paterno ) era il Marchese del Vasto e governatore di Milano. Poiché era la donna più bella e desiderata dì Italia la famiglia organizza per lei un vantaggioso matrimonio col Marchese di San Lucido Federico Carafa.
Il primo matrimonio
Federico era giovane, colto e aitante; tre anni durò questo felice matrimonio quando a poco più di vent’anni una imprevedibile e misteriose morte colse il giovane marito tale da generare chiacchiere che dicevano che era morto “per aver voluto troppo onorare la bellezza di sua moglie “in questi due anni Maria ebbe da Federico due figli. Rimase vedova a circa 18 anni; la sua bellezza dopo le gravidanze era ulteriormente aumentata e maturata. In genere quando una nobile rimaneva prematuramente vedova era destinata al convento. Ma la famiglia capisce che la vita conventuale non sarebbe stata consona alla intraprendente giovane figlia quindi si adoperarono a trovarle presto una nuova sistemazione.
Il secondo matrimonio
Il prescelto è il Marchese di Giuliano, Alfonso Gioieni, e Maria si trasferisce in Sicilia dove risiedeva il marchese. Nell’ isola la vita scorre serena nonostante la perdita del primo figlio avuto dal precedente matrimonio. Ma dopo cinque anni il marito inspiegabilmente muore. La misteriosa circostanza e la sua irrompente bellezza continuavano a suscitare illazioni al punto che si iniziò a chiamarla la “dama nera “, la donna che consumava gli uomini.
Il terzo matrimonio
Nonostante fosse ritornata a Napoli la fama di dama nera l’aveva seguita dalla Sicilia e per metterla a riparo da dicerie i suoi genitori pensarono di farla risposare. Occorreva un matrimonio prestigioso che mettesse la loro figlia al riparo dai pettegolezzi e dalle malelingue. L’uomo giusto era Carlo Gesualdo Principe di Venosa, cugino di primo grado di Maria, appartenente ad una delle più ricche e potenti famiglie del regno.
Don Carlo Gesualdo, Il Principe musicista.
Don Carlo Gesualdo principe di Venosa a soli venti anni venne fatto sposare alla bella Maria d’Avalos che già ne aveva 26 e due matrimoni alle spalle. Carlo era un giovane mite e buono, religioso, amante delle lettere, amico del Tasso; frequentava i migliori salotti intellettuali, aveva un’ eccezionale predisposizione alla musica tanto da diventare il più grande madrigalista del tempo. Grazie alle sue doti e tecniche musicali si considera un precursore della musica moderna; Stravinskij lo definiva come suo maestro. Il principe era preso così tanto dai suoi interessi culturali e dai suoi salotti letterari e musicali che trascurava la bella moglie a cui poco interessavano. Ella era più propensa ad una vita mondana e spensierata. Dal loro rapporto nacque un figlio, Emanuele, che il principe perderà per una caduta da cavallo; il dolore di questa perdita lo porterà alla morte.
Fabrizio Carafa “l’arcangelo”
Rampollo dei Carafa, una delle più potenti famiglie di Napoli, temuta perfino dal viceré, con membri illustri fra nobili e cardinali, viene fatto sposare molto giovane con Maria Carafa principessa di Stigliano da cui ebbe quattro figli in undici anni di matrimonio. La principessa era molto bigotta, aveva riempito la sua casa di monache e preti, confessori, padri spirituali, da sembrare un oratorio. Il duca invece era un uomo brillante, amante di emozioni e di avventure, sempre pronto alle lusinghe delle donne. Era un uomo prestante, pieno di fascino e di allegra compagnia con capelli biondo ramati; per la sua avvenenza era stato soprannominato “l’arcangelo“. La vita familiare era noiosa, senza emozioni e senza gioia. Anche le continue avventure amorose vennero a noia, fin quando ad un ballo conobbe Maria d’Avalos e scoppiò la scintilla dell’amore che fece tornare al duca la passione e il sentimento che la sua vita sregolata e senza amore aveva nascosto.
L’Assassinio
“Quando credeam secreti
Goder d’amore i frutti dolci e lieti
Ne i più sonni quieti
fummo interrotti ed io ed egli ucciso
Giacqui e lo spirto fu da noi diviso;”
(anonimo)
Pettegolezzi dicono che fu lo zio Giulio Gesualdo ad armare la mano di Carlo. Giulio sarebbe stato segretamente innamorato della nipote e, più volte respinto da lei e roso dalla gelosia, avrebbe istigato al delitto il principe, che da parte sua era religiosissimo e incapace di nuocere ad alcuno. La notte del 17 ottobre del 1590 Carlo finse di partire per una battuta di caccia e si appostò invece nelle cantine del suo palazzo con tre fidati sicari. Non dovette aspettare molto l’arrivo del duca d’Andria.
Nonostante gli amanti avessero messo di guardia una giovane cameriera, furono sorpresi nel pieno della notte nel talamo nuziale, e barbaramente trucidati. Il principe non partecipò materialmente all’uccisione e rimase nell’anticamera; solo quando tutto fu compiuto si accanì col suo pugnale, prima sul cadavere del duca, quasi volesse cancellare la sua bellezza, e poi sul ventre della moglie.
I corpi straziati e nudi degli amanti furono esposti sul portone di casa, per mostrare alla città che l’onore del principe di Venosa era salvo.
Piangete o Ninfe, e in lei versate i fiori
pinti d’antichi lai l’umide foglie
e tutte voi che le pietose doglie
stillate a prova e lacrimosi odori.
Il Processo
Il principe si recò a confessare il crimine a Juan de Zuniga, conte di Miranda, rappresentante del re di Spagna Filippo II a Napoli; la legge di allora consentiva al coniuge di ammazzare la moglie colta in fragrante adulterio, ma non l’amante, a meno che non fosse una persona abietta e di sicura immoralità.
Il conte pilotò l’inchiesta per un immediato proscioglimento del principe per giusta causa, e al contempo lo invitò a lasciare Napoli per evitare la vendetta delle potenti famiglie degli uccisi.
Il volontario esilio
Carlo si rifugiò nel feudo di famiglia di Gesualdo, sulle montagne dell’avellinese, inaccessibile roccaforte ove era al sicuro da ogni vendetta.
Il rimorso e l’espiazione
Tuttavia, la coscienza e il ricordo del duplice omicidio continuarono a tormentarlo. Si dice che indossasse sempre un cilicio e che per aver pace si facesse battere tre volte al giorno da una squadra di dieci giovani. Nondimeno, Carlo donò al paese di Gesualdo molte opere, forse per cercare la pace dell’anima e il perdono di Dio: fece edificare una fontana, tre chiese e due conventi, uno per i Domenicani e uno per i Cappuccini.
Il convento dei Cappuccini comprende la chiesa di S. Maria delle Grazie, nella quale si trova l’imponente tela (481cm x 310 cm, qui sotto immagine) intitolata “Il perdono di Carlo Gesualdo”, di Giovanni Balducci (1609).
La morte
Nell’ultimo periodo della sua vita, attanagliato dal rimorso, afflitto da emicranie e da atonia intestinale, Gesualdo compone solo musica sacra… Un altro atto di espiazione. Nel 1613 dopo la notizia della morte dell’unico erede Emanuele, caduto da cavallo, Carlo ne è sopraffatto. Si ritira in una piccola cella del castello e, rifiutando acqua e cibo, si lascia morire, rendendo l’anima a Dio l’8 settembre del 1613.
La Scomparsa dei Corpi :
Dopo l’atroce delitto il corpo straziato del Duca d’Andria fu affidato al padre gesuita Carlo Mastrillo che provvide ad una veloce ed anonima sepoltura molto probabilmente nella chiesa del Gesù vecchio che era abbastanza vicino al luogo della tragedia. Quello della d’Avalos, sebbene non si hanno riferimenti precisi, sicuramente fu affidato ai padri domenicani che avevano chiesa e convento proprio accanto al luogo del delitto. La inumarono nella basilica di San Domenico Maggiore in una tomba anonima, nonostante i d’Avalos avessero in quella chiesa una stupenda cappella gentilizia, per evitare morbosità e dicerie sul suo sepolcro.
A distanza di 400 anni appassionati e studiosi vanno ancora alla ricerca dei resti mortali degli sfortunati amanti. Nel 1993 quando furono esaminate le arche dei Nobili aragonesi custodite nella sacrestia di San Domenico Maggiore fra queste ne è emersa una di un giovane nobile sulle cui ossa si sono evidenziati numerosi tagli di un pugnale e i capelli erano di color ramato, come le antiche cronache riportavano della descrizione di Fabrizio Carafa “nè rosso nè biondo, ma oro e rame fusi assieme”. Coinciderebbe anche l’età di circa 30 anni e il periodo della morte verso 1590. Ma sono solo suggestive ipotesi che quel corpo fosse veramente quello del giovane amante.
“Alme leggiadre a meraviglia e belle
Che soffriste morendo aspro martirio,
Se morte, amor, fortuna, il ciel v’uniro
Nulla più vi divide e più vi scelle”
Per approfondimenti:
Dello stesso autore: Carlo Gesualdo Il principe, il musico, l’assassino