Pietro Germi.

Uno dei registi e sceneggiatori più iconoclastici e poliedrici del cinema italiano tra gli anni 50’ e ’60, capace di passare dai film polizieschi di matrice americana – Gioventù Perduta del 1947 e In Nome della Legge del 1949 – a quella legati alle tematiche del neorealismo – Il Ferroviere del 1955 e L’Uomo di Paglia del 1958 – nei quali è presente una critica dura e asciutta della politica italiana e delle sue trasformazioni che, solo tra gli anni ’70 e ’80, diverranno chiare, facendo assurgere le sue opere filmiche a “manifesti anticipatori” di vizi e virtù di un paese in via di cambiamento.

Fu in particolare con le regioni del sud che Germi sviluppò una particolare empatia per le sue genti e le loro qualità; ed è in Sicilia che scelse di ambientare, attraverso una commedia amara e grottesca, un atto d’accusa nei confronti del delitto d’onore, con il film Divorzio all’Italiana.

Il barone Ferdinando Cefalù, stanco di un matrimonio di dodici anni con Rosalia – dal quale non sono mai nati figli – decide di eliminarla cosi da potersi risposare con la bellissima cugina Angela e, dopo una ricerca affannosa e dagli esiti più che scoraggianti, riesce a rintracciare un suo vecchio spasimante, con il quale spera che lei possa commettere finalmente un adulterio, per poi potersi rifare una vita dopo tanto patimento degno dell’inferno.

Ma il suo piano geniale rischierà di andare al diavolo quando la coppia di adulteri deciderà di fuggire e Cefalù, per riuscire a portare avanti il suo diabolico piano, dovrà affrontare umiliazioni e derisioni, per poi riuscire, una volta eliminata la moglie e l’amante, a coronare il suo sogno d’amore, senza sapere che, alla fine, a causa dell’isolamento sociale, culturale e politico, di doversi guardare le spalle dalla bella cugina, che potrebbe rivelarsi meno “pura e innocente” di quello che sembra.

Divorzio all’Italiana – Un ritratto grottesco di un’Italia che, da allora, non è migliorata.

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