Sono ormai tantissimi gli articoli medico-scientifici scritti sull’epidemia da Sars Cov-2 da quando, ormai è quasi un anno, è scoppiato il contagio pandemico.
Uno studio, condotto da ricercatori del Departement of Life, Health & Envirinmental Sciences dell’Università dell’Aquila in collaborazione con l’Unità di Immunologia Clinica presso l’Università di Studi Europei “J. Monnet”, è illuminante in merito alla stretta correlazione tra inquinamento atmosferico e malattie a carico dell’apparato respiratorio, nella fattispecie contagio da virus Cov-2.
Grazie alla fonte e i dati che mi sono stati presentati da Marina de Angelis del WWF Napoli, sappiamo che questi ricercatori hanno scoperto che la proteina che protegge l’organismo dai danni delle polveri sottili, segnatamente il PM 2,5 (particelle inquinanti emesse da industrie, veicoli e altre sorgenti, dal diametro inferiore o uguale a 2,5 micron, cioè millesimi di millimetro) è la stessa che favorisce l’azione dannosa del Sars Cov-2.
Ed ecco che l’emergenza sanitaria si rivela connessa a una dinamica ecologica in quanto il nostro organismo, quando esposto lungamente al PM 2,5 si difende producendo una proteina chiamata ACE2. Purtroppo questa proteina è la stessa che il virus sfrutta come “serratura” per la sua azione nociva a carico dei polmoni.
Corresponsabile di questa dinamica ecologica negativa è il biossido d’azoto, NO2, di pari passo con altri due fattori predisponenti: l’indice di vecchiaia e la densità di popolazione.
Questa tesi può spiegare l’elevato tasso di incidenza e di mortalità da Covid-19 nelle regioni del nord rispetto a quelle del centro-sud. Basti pensare che Taranto, una delle città notoriamente più inquinate d’Italia, da anni non registra più livelli significativi di PM2,5 (dato rilevato dall’ARPA Puglia, Agenzia Regionale Protezione Ambiente).
Non si può quindi parlare in generale di smog e inquinamento da mettere in correlazione con i dati della pandemia, in quanto ciò è fuorviante.
I dati dello studio sono stati pubblicati sulla prestigiosa rivista scientifica International Journal of Enviromental Research and Public Health.
E, in questa dinamica ecologica negativa, come si spiega la minore vulnerabilità dei bambini rispetto al coronavirus? La risposta potrebbe essere collegata al fatto che nei bambini i recettori ACE2 possono non essere così sviluppati e quindi sarebbe più difficile per il virus penetrare nelle cellule e infettarle.
A conti fatti le aree più massivamente e cronicamente esposte a alti livelli di PM2,5, come la Lombardia e il Veneto, sono state – in occasione della prima ondata di contagio – e sono tuttora le regioni più colpite dall’infezione.
E in Lombardia un’ulteriore aggravante risulta essere l’alta densità di popolazione.
In conclusione la tesi che avvalora l’ipotesi dello studio è che tra marzo e maggio 2020 il lockdown ha fermato tutto: traffico veicolare ridotto, ferme le industrie. Di conseguenza il tasso di emissione degli inquinanti, segnatamente del PM2,5 e del biossido di azoto, è crollato. E proprio l’inizio dell’estate ci ha fatto sperare di aver superato l’emergenza.
Ci siamo illusi! Dopo il lockdown generalizzato si è riaperto tutto e, di pari passo, anche i livelli di inquinamento sono tornati a crescere ed ecco la seconda ondata, più intricata della prima se non più difficile.
Vanno bene le misure di contenimento, l’uso delle mascherine, il distanziamento e la grande speranza dei vaccini ma dobbiamo guardarci dal killer dell’inquinamento che, come si è visto, stipula alleanze occasionali con il coronavirus per incrementare notevolmente la mortalità e morbilità, già di per sé drammatica, dovuta alle malattie dell’apparato respiratorio.