Quando un Paese si trova a rimanere indietro nella vorticosa corsa dello sviluppo economico, chi lo governa è spesso costretto a scelte drastiche per recuperare l’arretratezza.
È quello che, negli ultimi 70 anni, è successo alla Repubblica Popolare Cinese.
Tra le varie misure adottate per salvare il Paese dallo stato di povertà in cui decenni di guerra civile, colonialismo e invasioni avevano gettato quasi la totalità della popolazione, una delle più interessanti è stata la “politica del figlio unico”.
Iniziata tra gli anni ’70 e gli anni ’80, la “politica” aveva lo scopo di limitare la veloce crescita della popolazione cinese, consentendo, allo stesso tempo, alle famiglie più povere di concentrarsi maggiormente sull’unico figlio, concedendogli maggiori possibilità.
La campagna ebbe un grande successo; probabilmente anche troppo grande.
Raggiunto un livello di benessere prossimo a quello dei Paesi occidentali, la Cina si è trovata ad affrontare anche alcuni dei loro problemi più ricorrenti: primi tra tutti invecchiamento della popolazione e contrazione delle nascite.
Con un’economia basata ampiamente sulla manodopera, condizioni demografiche come (ad esempio) quelle italiane, minerebbero eccessivamente la possibilità di un ulteriore sviluppo economico per il gigante asiatico.
Per risolvere il problema, già nel 2016, il Governo aveva dichiarato la fine della “politica del figlio unico” in favore di quella dei due figli; il 31 Marzo di quest’anno, dalla “politica dei due figli” si è passati a quella dei tre.
Ciò non significa che le famiglie saranno costrette ad avere tre figli ciascuna, ma solamente che, volendolo, ne avranno la possibilità.
Nel piano quinquennale per gli anni 2021-2025, rilasciato negli scorsi mesi, sono presenti anche altre misure volte ad affrontare soprattutto i cali di natalità e forza lavoro. Tra queste vanno menzionate il piano massiccio per la costruzione di asili e lo spostamento di priorità dalla crescita del Prodotto Interno Lordo (Pil) a quella della produttività del lavoro.