Da sempre un luogo simbolo della città, ma individuato solo come l’Aeroporto internazionale che essa ospita, peraltro il più grande dell’Italia Meridionale, Capodichino è invece abbarbicato ad una lunga tradizione. Questo articolo cercherà di spolverare tradizioni e leggende dimenticate, assopite e cercare di guardare con occhi diversi una zona, lasciata solo al passaggio di auto.
Una delle strade principali che unisce la parte alta che porta all’entroterra, e cimiteriale, che rappresenta una delle strade principali per raggiungere la città di Napoli attraverso l’accesso di Porta Capuana.
L’origine del suo nome, “Capodichino”, ha radici medievali e farebbe riferimento alla cima delle sue alture su cui si saliva, appunto, per raggiungere l’ingresso alla città di Partenope. In verità, dal latino Caput Clivii, ovvero sommità della salita, che è stata trasalta nel volgo nei secoli successivi, nel toponimo in Caput de Clivo fino a Capo de Chio fino alla contrazione nell’attuale denominazione: Capo di Chino.
Altre notizie attestano il toponimo risalga all’anno 877 negli atti della traslazione del corpo del vescovo di Napoli Santo Atanasio, da Montecassino a Napoli. Qui è menzionato il nome di “Clivum” di “Caput de Chio” “de Chiu” e “Clivu.” Ancora, lo ritroviamo in un documento datato il 16 ottobre 1342 in cui è citata la donazione da parte della Regina Sancia de Maiorca, moglie di Roberto d’Angiò, al Monastero del “Corpo di Cristo”, oggi “Santa Chiara”, di un pezzo di terra situato in un luogo detto “Capo de Chio” e la contrada detta “Liburnia”.
Così durante la dominazione spagnola in cui il Vicerè Don Pedro Giron operò delle trasformazioni alla strada, e ci viene descritta con una fitta vegetazione, tanto da essere inaccessibile e pericolosa da percorrere per la presenza di briganti, che di solito si nascondevano nei pressi della grotta detta degli “sportiglioni”, la stessa grotta fu usata da Belisario per nascondere il suo esercito nella campagna d’Italia contro i Goti nel 537. Capodichino, come tutti gli altri territori e paesi limitrofi, che all’epoca venivano appellati col nome di “casali”, aveva uno sviluppo prettamente legato all’agricoltura: infatti tra le antiche produzioni risultano vini, legumi, canapa, e grano.
Si narra che, il comandante di Giustiniano, per conquistare la città, nascose al suo interno l’itero reggimento di cavalleria e tagliato i canali dell’antico Acquedotto Augusteo (o Serino o Claudio) attraversandolo entrò in Napoli con i suoi 400 soldati. Circa mille anni più tardi, nel 1442, il comandante dell’esercito di Alfonso I di Aragona, Diomede Carafa, seguì la stessa strategia.
Nel 1528 sulle stesse orme il generale francese Odet de Foix, conte di Lautrec insediatosi nella zona per assediare la capitale del Viceregno spagnolo e nel tentativo di costringere i napoletani ad arrendersi per la sete ordinò di rompere i canali dell’acquedotto della Bolla. Questa manovra, però, gli si ritorse contr perché le acque si impaludarono causando una violenta pestilenza che uccise anche lo stesso esercito invasore e portò alla morte del generale. Questa grotta fu infine destinata alla sepoltura dei numerosissimi morti della peste del 1656 fino a divenire un luogo prediletto per le pratiche negromantiche.
Con i Borbonici ci furono ulteriori modifiche e livellamenti della strada e nel decennio napoleonico, Gioacchino Murat nel 1808, continuò l’opera di riforma di Giuseppe Bonaparte con una serie di lavori tra i quali comprese il Campo di Marte, destinato alle esercitazioni militari come accadeva a Roma. Per tale scopo la collina fu ridotta quasi interamente a pianura.
Sorgeva in questa zona la “Masseria Starza”, che nel corso dei secoli veniva data in affitto sempre a coloni diversi- La masseria, essendo ricca di viti ed arbusti, era conosciuta per la produzione di aglianico e crebbe tanto che nel 1614 per far fronte alle esigenze dei fedeli, che fino ad allora si dividevano per le 3 parrocchie vicine, (Secondigliano, San Pietro a Patierno, e Sangiovanniello), venne edificata la chiesa di San Michele Arcangelo, antica Cappella degli Ebdomari (demolita per la costruzione della Calata Capodichino).
Oggi il quartiere di Capodichino si concentra principalmente nella piazza omonima, intitolata a Giuseppe Di Vittorio (sindacalista, politico e antifascista italiano), la via De Pinedo, e la Calata Capodichino; il restante come tutti ben sanno è costituito dall’aeroporto.
Un’altra notizia storica importante avvenne con la costruzione dell’ultimo muro di cinta della città: il “muro finanziere”. Progettato dall’architetto Stefano Gasse, per volere di Francesco I di Borbone, questo venne costruito per combattere il contrabbando e favorire il commercio marittimo e terrestre. Esso chiudeva la città dal ponte della Maddalena a Posillipo, da Fuorigrotta al Vomero, per poi ricongiungersi a Capodichino via Miano. Era lungo 20 chilometri e doveva essere munita di 19 barriere, delle quali vennero costruite solo 13. Per questo fu costruito un edificio di Capodichino, con pianta circolare con colonne, che rientrava insieme alle altre 3 dogane site a Miano, Ponte della Maddalena, e l’emiciclo di Poggioreale. Restano traccia della monumentalità 3 obelischi su 9 che ergono nella piazza Di Vittorio.
Poco distante vi è la chiesa dell’Immacolata che fu eretta quando l’otto dicembre del 1856, mentre al campo di Marte si tenevano le esercitazioni militari, con il popolo recatosi per assistervi, il re Ferdinando II si trovò a fine della parata vittima di un attentato da parte di Agesilao Milano, militare del Regno, ma senza riuscirci. Il militare venne arrestato e giustiziato, ma scioccato dall’avvenimento Ferdinando II da quel giorno limitò le sue uscite per la capitale, e scosso dall’accaduto ordinò la costruzione della chiesa dell’Immacolata, inaugurata il 2 e 3 agosto 1857.
Non si può dimenticare “a’ pazzaria e Caprichino”, nata dopo dopo l’apertura del primo ospedale psichiatrico d’Italia ad Aversa, che si aveva l’esigenza di una struttura ricettiva per i malati mentali di Napoli. Nel 1833 su calata Capodichino,230, nacque l’istituto per le malattie mentali “villa Fleurent”. L’istituto, all’epoca chiamato dal popolo col suddetto nominativo, prende il nome da Pietro Fleurent, ex portiere della casa dei matti di Aversa. Essa era composta da una “vaccheria” che produceva latte fresco per gli ammalati ed ebbe come “ospite” speciale l’ospedale ebbe anche il pittore Vincenzo Gemito, che vi scappò la notte d’agosto del 1887. Oggi la struttura divisa in padiglioni, è quella che tutti a Napoli conoscono come “o’ manicomio”, e che dai primi del ‘900 divenne l’ospedale psichiatrico Leonardo Bianchi.
Infine, al civico 201 di Calata Capodichino, ormai senza traccia vi era una villa massonica settecentesca appartenuta ad un commerciante tedesco emigrato a Napoli: Christian Heigelin. I cronisti del tempo la indicavano come una tra le più belle ville dell’epoca, a cui si accedeva solo a piedi o a cavallo tramite una ripida scalinata. La villa, in particolare aveva un teatro all’aperto, un romitorio con celle per i “ritiri spirituali”, un labirinto di vialetti alberati, ed uno straordinario giardino, primo esempio in Europa, di giardino Massonico. Essa ebbe tanti ospiti illustri ebbe: Diego Naselli (Gran Maestro e uomo fidato di Maria Carolina), Elisa von der Recke discepola di Cagliostro, e lo scrittore Johaan Wolfgang Goethe.
Insomma, un vero viaggio nella storia in un quartiere solo attraversato e dimenticato per lo più dai napoletani, quando invece è intriso di eventi meravigliosi della nostra esistenza di ‘napoletani’… quindi oggi passandoci alzate la testa e guardate la sua vera bellezza e non tenete il Capo…chino.