La Pasqua, la festa cristiana che annuncia la Resurrezione di Cristo e il risveglio della Primavera è ormai alle porte; ma non tutti conoscono il significato del rituale popolare dello «struscio del Giovedì Santo» tanto osservato nel Settecento napoletano che aveva ben poco di religioso. Oggi l’usanza è caduta in disuso, ma ravvivata e tramandata solo in alcuni paesi o quartieri della città.
Da dove ha origine lo struscio? Deriva da «strusciare, strascinare», dallo strofinare i piedi sull’asfalto o, come annotavano i cronisti dell’epoca, è lo “strusciare” degli abiti nuovi tra la folla, perché una volta, il giovedì santo, in questa occasione, si ” ‘Ngignava” (cioè si metteva per la prima volta un abito nuovo) e le ragazze da marito, tutte vestite a festa, uscivano, a braccetto con le loro madri, nella speranza di trovare marito. A Napoli si intende letteralmente «passeggiata» ovvero una futile occasione per uscire, per incontrare gente, acchiappare, inciuciare e mettersi in mostra, ma in occasione della Pasqua il termine acquista un significato particolare, intriso di fervore religioso in quanto coincide con la visita agli altarini che vengono, ancora oggi, allestiti in ogni chiesa.

Nel Settecento, ai tempi di Ferdinando I di Borbone, le strade, in occasione della settimana Santa, si trasformavano in vere bolge infernali, prese d’assalto in ogni direzione e per tale motivo nel 1704 il viceré spagnolo, emanò un bando che ne vietava la circolazione delle carrozze e dei carri dal Giovedì Santo fino alle 10.00 del Sabato Santo.
Il divieto inizialmente penalizzava l’intera città, fin quando fu circoscritta solo a Via Toledo, via simbolo dello struscio.
Il Giovedì Santo era riservato al popolino che si recava ai Sepolcri, mentre il Venerdì Santo spettava ai reali e alla nobiltà che varcavano via Toledo in bella mostra.

La Pasqua napoletana, almeno fino all’Ottocento, era la festa dell’ostentazione, del lusso e dello sfarzo a cui nessuno poteva rinunciarvi e l’aria che si respirava era impregnata del profumo di incenso. che fuoriusciva dalle chiese, e di dolci e pastiere che invadeva le strade, ma anche dai profumi pungenti delle gran Dame che davano sfoggio delle loro superbe ricchezze.
Alla Pasqua, il popolo napoletano si preparava osservando il digiuno, un poco per devozione religiosa e un poco perché, affamato, aspettava di mettersi a tavola e di godere di tutte le pietanze pasquali che la tradizione imponeva, senza mezze misure.

Oggi come allora, la cosa non è cambiata di molto. Lo struscio del Giovedì Santo prevedeva l’adorazione del Santissimo Sacramento in almeno sette chiese principali (da qui deriva la frase “Fare il giro delle sette chiese”), in quanto il numero 7, avendo un significato altamente sacro, corrisponde per assonanza ai 7 gradi della perfezione, alle 7 sfere celesti, ai 7 rami dell’albero cosmico, ai 7 maggiori pianeti, indica il rinnovamento umano e spirituale, ma, nel tempo, il numero si è ridotto a 3 chiese. che sono più che sufficienti a rispettare il rituale del Giovedì Santo, in quanto anche questo numero è associato alla religione, al corpo, all’anima e allo spirito.
L’usanza di fare i “Sepolcri” (impropriamente detti) dove riposerebbe il Cristo morto, in realtà è un falso, in quanto, come ci rammentano le sacre scritture, il Giovedì Santo, Gesù celebrava l’Ultima Cena (Cena Domini o Cena del Signore) e durante i riti di questa giornata, viene consacrata l’Eucaristia che verrà poi usata nei riti del Venerdì Santo e posta nell'”Altare della Reposizione” (il cosiddetto Sepolcro) all’adorazione dei fedeli.

 

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