A pochi passi da Castel Capuano, in Via dei Tribunali, venne costruita nel XII secolo con il nome di San Gregorio in Regionario, una chiesetta di piccole dimensioni.
Nel 1176 Sergio III, arcivescovo di Napoli, ne cedette la giurisdizione ai monaci benedettini di Cava dei Tirreni e divenne loro priorato fino al XV secolo. Con il Cardinale Arcivescovo Oliviero Carafa la chiesetta dei Benedettini fu donata al porporato e ne divenne parrocchiale nel XVI secolo.
Questa struttura sin dall’immediato post-Concilio di Trento fu spogliata della sede parrocchiale che venne trasferita nella vicina chiesa di Santa Caterina a Formiello. Il suo nome nel frattempo era stato modificato in San Tommaso a Capuana per essere oramai sede dell’Arciconfraternita del SS. Rosario in S. Caterina a Formiello, poco dopo fu chiusa al pubblico.
Rimaneggiata e restaurata più volte, solo nel XVIII secolo guadagnò l’aspetto attuale con la facciata in pieno stile barocco. IL suo portale di ingresso, incorniciato da lesene, è sormontato da volute che racchiudono un finestrone che descrivono l’aspetto seicentesco. L’interno, ad navata unica senza transetto, custodisce sull’altare l’opera di Giuseppe Bonito, una “Madonna col Bambino e santi Tommaso Apostolo e Gennaro” e sul davanti vi è posta una statua lignea della Vergine Incoronata, forse del Rosario non datata.
Ai lati della navata, sugli altari, una “Deposizione” del 1749 attribuita a Ludovico De Maio, seguace del Solimena, e di fronte una “Assunzione” di un anonimo del XVI secolo. Quest’ultima ha una particolarità, ovvero, la Madonna è dipinta mentre assorge al cielo e perde la cintura, questo racconto sacro è descritto solo nei ‘vangeli apocrifi’, di cui più avanti racconteremo.
Sul soffitto, sui pennacchi e le pareti stucchi con affreschi della storia del Santo del pieno settecento e dello stesso periodo degli angeli siti sulla controfacciata.
Tommaso a Capuana ci riporta ad un periodo storico molto duro della nostra Napoli ma anche molto attuale, ovvero i condannati a morte soprattutto per pedofilia. Durante il periodo Vicereale (1503 -1688) vi era l’abitudine di infliggere pene ai condannati prima della condanna stessa. Dopo essere stati giudicati e dichiarare colpevoli alla forca, questi rei venivano portati tra le “strade della vergona” (alla gogna, appunto) per effettuare l’ultimo passaggio davanti al Tribunale della Deputazione dei Sedili, ovvero la basilica di San Lorenzo Maggiore.
Superata piazza San Gaetano e lungo Via dei Tribunali bisognava scendere per via degli Impisi, attualmente via Nilo, e ritrovarsi su via San Biagio dei Librai, dove era possibile vedere Napoli per l’ultima volta perché non coperta da tantissimi palazzi. È da qui che nasce il modo di dire, oramai turistico di “Vedi Napoli e poi muori”.
Il condannato arrivava al patibolo in Piazza Mercato per subire la condanna. Tale uso perdurò fino al 1651 anno in cui fu portato alla forca lo stesso boia, ovvero un certo Antonio Sabatino che nel 1650, dietro pagamento, aveva espanso, per il divertimento della plebaglia, le sofferenze di due condannati: il gentiluomo Antonio Taglialatela, condannato alla decapitazione, ed il popolano Nunzio Di Fazio, condannato all’impiccagione.
Il Boia fu arrestato, per ordine dei giudici della Gran Corte della Vicaria, in flagranza di reato egli fu prima rinchiuso nelle carceri e dopo venne processato e condannato ad essere afforcato. Da questo momento e per paura di rifare la stessa medesima fine del Sabatino, portò tutti i boia a rifiutarsi di prendere dagli spettatori (la cosiddetta plebe) un pagamento sottomano, così quest’uso di prolungare la sofferenza del condannato divenne di pertinenza della medesima plebaglia.
I condannati, ma soprattutto i pedofili, venivano guidati lungo la strada dove si erano create due ali formate dalla popolazione, in mezzo camminava il reo che doveva arrivare al patibolo.
La plebaglia espandeva ad libitum le sofferenze dell’infelice con sputi, percosse, dilaniandone le carni con tenaglie infuocate e soprattutto con scottature operate con l’uso di pezzi di lardo bollente che venivano soffregati sul corpo del condannato.
Molte volte, dopo pochi passi dal Castel Capuano (il Tribunale) non si riusciva ad andare avanti e quindi si sostava per la notte in San Tommaso a Capuana.
Con questo atto nasce la terminologia di “lardiati” e di conseguenza “fà ‘na lardïata”, “me’ fatte’ ‘na lardiata”, il lardo bollente veniva preso a cucchiaiate o a mano dalle pentole del ragù e lanciate contro il condannato, lardiandolo, punendolo e sporcandolo.
Era d’uso che il lardo sotto sale o affumicato veniva, innanzitutto, bastonato e sminuzzato per poi farlo sciogliere come base di cibi vari soprattutto il ragù napoletano del passato, ed anche questo richiama la terminologia. Questo uso di lardiare i condannati porterà a sviluppare proprio in questa zona della Vicaria, una serie di botteghe, meglio conosciute con il nome d’ ‘e chianche (panche ovvero macellerie) che vendevano il lardo per la cucina e per il supplizio.
La Sacra Cintola, chiamata anche Sacro Cingolo, è considerata la cintura della Madonna ed è la reliquia che si custodisce a Prato, nell’omonima cappella del Duomo e l’8 settembre, Natività di Maria, viene esposta con particolare solennità durante il Corteggio Storico.
Una sottile striscia, lunga 87 centimetri, di lana finissima di capra, di color verdolino, broccata in filo d’oro, gli estremi sono nascosti da una nappa su un lato e da una piegatura sul lato opposto, tenute da un nastrino in taffetà verde smeraldo, che la tradizione vuole che appartenesse alla Vergine Maria, che la diede a San Tommaso come prova della sua Assunzione in cielo.
Secondo la tradizione, San Tommaso, incredulo anche dell’Assunzione in cielo della Madonna, volle aprirne il sepolcro ma vi trovò solo la cintura del suo abito, lasciata da Maria per confortare la sua fede. L’evento viene rappresentato simbolicamente in moltissime pale d’altare di cappelle dedicate a San Tommaso mostrando la Madonna che sale al cielo e la cintura che pende verso il santo incredulo, e simboleggia il legame fra l’uomo e la Vergine. Tommaso, prima di partire per le Indie, affidò la reliquia ad un sacerdote di rito orientale, e da qui iniziò la trafila dei vari passaggi, fino a quando non giunse in possesso di Michele Dagomari da Prato, mercante in soggiorno a Gerusalemme nel 1141.
Insomma come potete leggere in queste pagine, come sempre il sacro e il profano, nella città di Partenope è un intreccio indissolubile e non può che farci partecipe di un passato e di un presente che, anche in una piccola chiesa oggi sede dell’Associazione Sisto Riario Sforza presieduta da Modestino Caso, aiuta i poveri e cela una patrimonio di immenso valore.