È di pochi giorni fa la controversa e criticatissima decisione dell’attuale presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, di ritirare 7000 soldati dalla Siria, adducendo come “causa” di tale decisione la “presunta” sconfitta dell’Isis (nonostante numerosi fonti definiscano lo stato islamico essenzialmente indebolito, segnalando il fin troppo concreto pericolo che, trascorso del tempo, possa tornare a colpire più forte che in passato).

La nascita di tale organizzazione jihadista salafita attiva in Siria e Iraq, dopo la condanna a morte di Saddam Hussein (che, per anni, aveva arginato le frange più estreme dell’ortodossia islamica) e la collaborazione iniziale con Al Qaida, dalla quale si è in seguito distaccata, è stato, finora, unicamente portatore di massacri interni ed esterni al mondo islamico, e di un numero impressionante di attentati contro bersagli non solo in Europa (come l’attacco a Charlie Hebdo) ma anche in regioni come la Giordania e l’Arabia Saudita.

Il clima di psicosi dovuto alle sua azioni “barbare e sanguinarie (come l’uccisione dei giornalisti americani James Foley e Steve Sotloff, tramite decapitazione) e i numerosi “attacchi da parte dei lupi solitari” che da alcuni anni investono l’Europa e il resto del mondo dovrebbero fungere da monito a non abbassare la guardia, e ad impegnarsi in un’opera di vigilanza e controllo allo scopo di neutralizzare una “minaccia” che, al pari dell’Hydra, sembra in grado di riuscire a rigenerarsi dopo ogni colpo sferrato da chi gli si oppone.

Il ritiro americano rischierebbe di indebolire le forze che le si oppongono, prive di un “deterrente” e di un “supporto” che, nel bene e nel male, è riuscito ad infliggere un biennio di sconfitte, grazie alle quali numerose vite sono state salvate dalla schiavitù in nome della religione e della sua applicazione più deviata.

Abbandonare ora sarebbe un errore che costerebbe sangue e nuove morti.

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