“Quando posai la testa sul cuscino non mi addormentai e nemmeno si può dire che mi misi a pensare. Senza freno, la mia immaginazione prese possesso di me e mi guidò, mostrandomi le immagini successive che si formavano nella mia mente, con una chiarezza al di là dei limiri delle solite fantasticherie. Vidi, con gli occhi chiusi, ma con una visione mentale molto lucida, un pallido studioso di arti sacrileghe inginocchiato accanto alla cosa che aveva costruito. Vidi l’orrendo simulacro di un uomo disteso mostrare segni di vita, grazie agli impulsi di un potente motore e stiracchiarsi con movimenti innaturali, vivo solo a metà”.
Le parole appena ascoltate, erano state scritte da Mary Godwin, creatrice della leggenda di Frankenstein, nota al pubblico come Mary Shelley, nata a Londra nel 1797, figlia di Mary Wollstonecraft, una delle più accese femministe d’Inghilterra e di William Godwin, un intellettuale radicale, rimasto vedovo dieci giorni dopo la sua nascita e, quando questa fu in grado di capire, le fece comprendere di essere stata lei la causa della morte della madre e, per questo, avrebbe dovuto rimediare eguagliandone l’intelligenza, il coraggio morale e le abilità letterarie, diventando in pratica una sostituta della madre morta. Nel 1814 all’età di diciassette anni, fuggì con il poeta Percy Bysshe Shelley, un uomo sposato con Harriet, che era incinta, portandosi dietro la sorellastra Jane Clairmont; nel febbraio dell’anno successivo, Mary diede alla luce una bambina prematura, che morì a marzo e, nel gennaio 1816 un maschietto che non sopravvisse e la stessa, a tal proposito disse: “Ho sognato che la mia piccola era tornata a vivere. Era soltanto fredda e la frizionavamo davanti al fuoco e tornava in vita”. Proprio in quell’anno Mary, Shelley e Claire stavano trascorrendo una vacanza a Ginevra ed abitavano in una casa in riva al lago, a breve distanza dalla grande villa Diodati, dove vivevano il poeta Lord Byron ed il suo amico John Polidori, quando il personaggio del giovane scienziato Victor Frankenstein fu creato; fu lì, come affermò Mary, “si discuteva di varie dottrine filosofiche e tra l’altro della natura del principio della vita, se vi era qualche possibilità che esso fosse mai scoperto e reso noto. Si parlava degli esperimenti di Darwin, il quale aveva conservato un avanzo di vermicelli, in un contenitore di vetro, finchè questi avevano iniziato a muoversi di moto proprio”.
In quel periodo, l’anatomista italiano Luigi Galvani, aveva scoperto che i muscoli delle cosce di rane dissezionate, potevano contrarsi se veniva applicata una corrente elettrica al nervo spinale e, ne conseguiva, che forse un cadavere poteva essere rianimato; Mary pensò che “Un cadavere poteva essere rianimato ed il Galvanismo aveva dato chiari indizi in questo senso e forse si poteva perfino fabbricare i componenti di una creatura, mettendoli insieme ed infondendo loro la forza vitale”. Le sere successive, Byron lesse un racconto tedesco, che narrava di un uomo infedele, il quale, nel baciare la sposa la sera delle nozze, la vide trasformarsi nel corpo putrefatto della donna che aveva abbandonato; un altro racconto era il Poema di Coleridge, Christabel, ispirato alla storia di Mary e di sua madre e nel poema, la madre maga vampira, distrugge il marito e la figlia Christabel. Questi racconti entusiasmarono Byron a tal punto da suggerire, ai presenti, di scrivere un racconto di fantasmi, ma i partecipanti persero subito interesse nella sfida, mentre Mary, che nel frattempo era diventata la Signora Shelley, dopo il suicidio di Harriet, non si diede per vinta, dato che l’abbinamento morte-creazione la ossessionava, tanto che aveva ucciso sua madre e non l’aveva sostituita, cercato di rianimare la figlia ed ascoltato, da novelli prometei, le varie congetture sulle nuove forme di immortalità; tra queste la storia del Golem, una creatura leggendaria fatta di argilla, da mano umana, alla quale era stata infusa la vita tramite la magia.
“In una desolata notte di novembre, vidi la fine delle mie fatiche”, diceva Victor nel racconto di Mary, la pioggia batteva contro i vetri, mentre il giovane esausto, raccoglieva gli strumenti con i quali avrebbe tentato di infondere la vita, nella creatura che aveva creato, un umanoide alto due metri e costruito con organi rubati nei cimiteri. “Vidi l’occhio giallo e smorto della creatura aprirsi, essa respirò forte ed un movimento convulso agitò le sue membra”, ma, “Bello! Signor Iddio! La pelle gialla copriva a malapena il gioco dei muscoli e delle arterie sottostanti, i capelli sparsi erano di un nero corvino, i denti di un bianco perlaceo, ma tutti quei particolari formavano un orribile contrasto, con gli occhi acquosi che sembravano quasi dello stesso colore delle profonde occhiaie, in cui erano infossati, con la pelle raggrinzita, con la linea nera delle labbra”, come scrisse l’autrice. Nel 1818, Mary Shelley pubblicò il suo famoso libro “Frankestein, ovvero il Prometeo Moderno“, ed aveva scavato nelle sue profonde paure e dato forma ad un grottesca figura umanoide, che ancora oggi fa pensare che la creazione di tali mostri sia alla portata dell’uomo.
Fonte articolo & foto: Fabio Giovanni Rocco, https://misterieprofezie.blogspot.com/2019/09/frankenstein.html, flickr.com, 24 settembre 2019