Avrete certamente incontrato nel vostro percorso di vita quei personaggi che cercano in ogni modo di raccontarvi storie ridondanti al posto di giustificazioni. Meglio ancora prolissi ad imbastire discorsi contorti, arrampicandosi sugli specchi. Quegli interlocutori capaci di argomentare cercando di convincere con esempi di chiacchiere insostenibili e senza fondamento, con un attraversamento trasversale di dispute che sono pure scuse e dimostrazioni.
Questi discorsi capziosi, ipocriti e bugiardi, orpelli inutili, ricami faziosi sono ascrivibili in un termine che può essere utilizzato sia per la persona che li compie o all’atto stesso delle ciance: ‘nu paraustiello.
Questo termine è di chiara matrice spagnola, secondo alcuni studiosi, fa riferimento alla popolazione povera napoletana del Quattrocento, che quando incontrava un signore spagnolo in città, si scostata lateralmente per dare il passaggio al nobile, e con una frase cerimoniale ammantava il gesto significativo dell’allora rispetto di ceto: “per voi”, o meglio “para usted”. Questo salamelecco divenne nel tempo, quando sempre più la presenza iberica divenne non più convivenza ma con il Viceregno una pressante presa di potere e soprattutto il Regno di Napoli divenne luogo di riscossione tasse per le guerre del Regno Spagnolo, solo un esercizio pomposo (e non rituale) ‘dovuto’ e non voluto.
Questo ‘para usted’ era oramai ridondante e falso, masticato tra i denti, o sbiascitato di parole diviene il nostro paraustiello di oggi.
Vi sono altre due ipotesi sulle origini del termine. Una secondo Luigi Casale in cui egli è un diminutivo del calco della parola paraòne, paravone, per l’italiano paragone ma che non avrebbe nessun legame con il significato dell’uso dialettale. La seconda idea, esposta da Raffaele Bracale, è sulla questione greca del termine Παραστάσεις, cioè parastasis, traslabile in “esposizione dei fatti utile a far comprendere”, tendeva a rappresentare in senso positivo ovviamente una spiegazione, un chiarimento, e che secondo la teoria assunse un’accezione negativa quando si voleva definire un discorso macchinoso e pretestuoso volto a persuadere.
E poi ci sino quelle chiacchiere e quei sproloqui, quelle informazioni lunghe e noiose, che sono anche sottile e fastidiosa, possiamo dire: “Pare ‘a trummetta ‘a Vicaria”.
Tra il 1537 e il 1540 durante il periodo di Viceregno, al tempo di don Pedro di Toledo, esisteva una figura chiamato banditore di giustizia. Questi aveva l’ordine di render pubbliche le sentenze emesse dalla Gran Corte che appounto era in caste Capuano nel sedile della Vicaria e, per attirare l’attenzione delle persone in strada, si serviva di una trombetta, o meglio una lunga tromba di ottone i cui squilli “penetranti” dopo aver stordito e ‘avvisato pubblicamente della lettura’ precedeva in un lungo seguito di emanazioni di leggi e dettami con una cadenza pesante e noiosa.
L’uomo dall’uscio del Tribunale, si fermava a ogni angolo della strada e dopo tre o quattro “trombettate” leggeva i bandi emanati, e per il popolo era un supplizio, che portava via tempo e che preannunciava nulla di buono. Per noi questa concezione ironica è usata anche per chi pettegola e che ritroviamo addirittura nella figura citata alla canzone del 1925 di Salvatore Baratta e Gaetano Lama: ‘A Trummetta â Vicaria. La canzone fu lanciata da Elvira Donnarumma e che interpretata anche da Diego Giannini e Roberto Murolo.
Testo musica: wikitesti.com