A pochi giorni dalle celebrazioni dovute ad una data fondamentale per la storia moderna, quel 27 Gennaio 1945 in cui l’Armata Rossa libero’ il campo di sterminio ad Auschwitz e con esso pose fine ad una delle pagine più’ ignobili e vergognose della storia, la memoria del nostro paese, l’Italia, troppe volte parziale e contraddittoria e certamente assalita da amnesie preoccupanti, dovrebbe doverosamente ricordarne un’altra di data, e cioe’ l’11 Dicembre 1945, vale a dire il giorno in cui fu definitivamente chiuso il più grande campo di internamento per ebrei e popoli nemici costruito dal regime fascista, il Campo Ferramonti di Tarsia. 

Ferramonti rappresentava una contrada malarica e malsana del Comune di Tarsia, cittadina della provincia di Cosenza, sottoposta a ingenti opere di bonifica a partire dagli anni ’30 del secolo scorso da parte della ditta Eugenio Parrini di Roma, legata ad un faccendiere molto vicino al regime fascista, che seppe sfruttare al meglio questa particolare condizione.

Dopo la promulgazione delle leggi razziali in Italia nel 1938, i circa 10000, tra ebrei residenti e quelli giunti in seguito per sfuggire alle stesse leggi emanate in Germania dal regime nazista (1933), ebbero un anno di tempo per lasciare il paese e rifugiarsi altrove; molti di questi riuscirono a lasciare l’Italia, ma in poco più di 3000 vi rimasero, per cui il regime fascista non esito’ a rinchiuderne la maggior parte in campi di internamento appositamente costruiti.

Il Parrini sollecito’ a tal proposito il regime alla costruzione di uno dei campi nei suoi cantieri di bonifica, a Ferramonti di Tarsia appunto, in modo da utilizzare le strutture esistenti e gestirne successivamente lo spaccio alimentare; a partire quindi dal mese di maggio del 1940, quando giunsero al Ferramonti circa 460 uomini ebrei perseguitati nei territori dalmati, slavi e istriani diventati nel frattempo italiani, si diede avvio alla costruzione del campo, a cui parteciparono gli stessi deportati, e alla fine del successivo mese di Giugno lo stesso fu reso operativo, sviluppato su una superficie di 16 ettari e composto da ben 92 corpi di fabbrica con latrine,  cucine e lavabi comuni.

Nei suoi cinque anni di vita furono ospitati più di 3000 tra ebrei, che rappresentavano la parte nettamente più consistente, e cittadini di paesi considerati nemici dell’Italia, e quindi slavi, greci, albanesi e persino cinesi.

Il campo era gestito da un commissario di Pubblica Sicurezza, un maresciallo, 10 agenti ed alcune camicie nere facenti parte della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale; spicco’ a tal proposito la figura del commissario Paolo Salvatore, il quale fu, durante il suo mandato, sempre benevolo ed accondiscendente nei confronti degli internati, aiutandoli nelle impellenti necessità in innumerevoli casi, e per questo più volte sostituito perché non ben visto dalle Milizie Fasciste operanti nel campo.

Altra figura emblematica ed encomiabile fu quella del cappellano Callisto Lopinot, che si insediò’ nel campo nel luglio del 1941, in seguito alla specifica richiesta fatta da una piccola comunità di detenuti cattolici al Nunzio Apostolico BorgonciniDuca, in visita due mesi prima per verificare le condizioni di prigionia degli stessi; Lopinot rappresento’, per tutto il tempo in cui il campo Ferramonti resto’ nelle mani italiane, un elemento di unione e coesione fra internati, appartenenti a diverse etnie e con differenti usi e costumi, oltre che tradizioni e credo religioso, tanto e’ vero che nel momento di massima occupazione dei locali e con l’arrivo anche di donne, bambini ed interi nuclei familiari, nacque una sorta di parlamento interno che fu rappresentativo degli “ospiti” delle varie baracche, furono celebrati matrimoni fra prigionieri che li’ si erano conosciuti e vennero favorite molteplici attività culturali e sportive, oltre che produttive.

L’episodio certamente più significativo e commovente della vita del campo avvenne tra il settembre e l’ottobre del 1943, quando a pochi metri da esso passo’ l’intera armata tedesca Hermann Goring, in ritirata dai territori occupati in Sicilia; avvisati del pericolo di probabili rappresaglie dei tedeschi, i detenuti furono il giorno prima liberati e si sparpagliarono fra le campagne circostanti, trovando nella stragrande maggioranza dei casi ospitalità da parte dei contadini del luogo, mentre gli ammalati, gli infermi e tutti coloro che erano impossibilitati a lasciare il campo furono salvati dallo stesso Lopinot e dal commissario, mediante l’apposizione della Bandiera Gialla, che lasciava intendere come in quel luogo vi fossero ammalati di tifo e di malaria, quindi, essendo locali malsani e pericolosi, vennero accuratamente evitati dai militari nazisti in ritirata.

Gli unici morti dei cinque anni e mezzo di vita del Campo Ferramonti di Tarsia si ebbero in virtù  dei proiettili esplosi in seguito ad un attacco aereo alleato avvenuto nell’agosto del ’43 nei confronti delle milizie tedesche, attacco avvenuto proprio sopra al campo; nessuno degli internati infatti morì in seguito a violenze, soprusi, atti di sterminio, così come oramai tristemente noto avvenne nei campi di sterminio nazisti.

Dopo l’armistizio dell’ 8 Settembre 1943, l’autorità militare italiana abbandono’ il campo e 6 giorni dopo, il 14 Settembre, vi entrarono le milizie inglesi, liberandolo, e di fatto permettendo che esso fosse condotto dagli ebrei che lo occupavano da internati.

Il campo fu ufficialmente chiuso l’11 dicembre 1945.

Dal 2004 i locali occupati dagli internati, appositamente ristrutturati, accolgono attività sportive, culturali, e soprattutto un Museo dedicato alla storia del campo, in cui si collocano tra gli altri, il plastico dello stesso, oggetti, foto, articoli di giornale e lettere che narrano la straordinaria esperienza di vita di un campo di concentramento inizialmente costruito per generare morte.

(Fonte Foto:campoferramontiditarsia.it)

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Dott. in Beni Culturali presso l’Università di Salerno-Fisciano con tesi in archeologia medievale. Nel 2018 consegue l’abilitazione per accompagnatore e guida turistica. Ha scritto e pubblicato articoli su una testata giornalistica artistica e attualmente lavora da libero professionista come guida turistica.