Tra pochi giorni (21-22 dicembre) cade il solstizio d’inverno, una data che, forse inconsciamente, mi ha sempre affascinato. Forse perché  si entra nella costellazione del Capricorno, un segno zodiacale a me caro o forse perché  le origini della mia città risalgono probabilmente, secondo il filosofo peripatetico Dicearco di Messina, vissuto nel IV secolo a.C., all’alba del solstizio d’inverno del 475 a.C.

Tra il 21 e il 22 dicembre l’asse terrestre è maggiormente inclinato verso l’esterno (e non verso il sole) per cui i raggi cadono con un angolo molto stretto (circa 23°). Ciò avviene nell’emisfero boreale mentre in quello australe avviene esattamente l’opposto. Nell’emisfero boreale il solstizio d’inverno è quello con il sole più basso: le ore di luce sono 8 o poco più, il resto è buio. Ma da quel giorno le ore di luce riprendono ad aumentare e ciò è stato interpretato nella storia e nelle tradizioni dei popoli come un segno di rinascita e celebrato con diversi rituali.

In Britannia presso Stonehenge si eseguivano riti di vario genere probabilmente nell’ora del tramonto.  Per i Romani era la Festa del Sol Invictus sulla quale peraltro pare sia stato rimodellato il Natale. Dal 17 al 23 dicembre per il popolo romano era anche il tempo dei Saturnali, giornate in cui si rendeva lode e sacrifici al dio dell’agricoltura e che cambiava, seppure per pochi giorni, la gerarchia della società. I servi potevano finalmente vivere qualche ora da uomini liberi e godere della vita, salvo poi tornare al punto di partenza allo scadere della festività. Come mai in molte di queste feste pagane erano diffusi riti e  sacrifici di animali? La ragione è che andando verso l’inverno, stagione avara di nutrimento, si eliminavano in questo modo i capi di bestiame che la popolazione non sarebbe stata in grado di nutrire. I riti propiziatori riflettevano per queste popolazioni il grande rispetto e la soggezione nei confronti di Madre Natura: stavano a significare che la Grande Madre Terra darà alla luce il dio Sole che la rifeconderà.

Sappiamo che la fondazione di Neapolis corrisponde, secondo fonti storiche attendibili, al solstizio d’inverno del 475 a. C. Molto presumibilmente  i coloni della vicina Cuma, dopo aver affermato la propria supremazia nei confronti dei Sanniti e degli Etruschi,  decisero di fondare un’altra città in un sito più ampio di quello già esistente sul monte Echia (Palepolis), oggi Pizzofalcone.  All’alba del 21 dicembre, un manipolo di soldati cumani, guidato dal pitagorico Ileotimo, si recò sulla sommità del colle più alto, dove oggi c’è la balconata di San Martino. individuando i punti delimitanti il perimetro della città nuova, Neapolis.

Possiamo azzardare un’ipotesi suggestiva:   non a caso è stata scelta dai Cumani questa data che segnava il giorno della rinascita. Diventava concreta, infatti, l’idea di fondare  una città nuova (Neapolis) che avrebbe dovuto inglobare la città vecchia (Palepolis).

Si nutre di verità nascoste

la notte  lunga del solstizio.

Notte invincibile,

fabbrica di sogni

sul limitare degli eventi.

Percorre le ombre del tempo

su vicoli, strade, piazze,

protegge l’arte

e le sue sacre sinfonie.

avvolge i palazzi,

le chiese e i monumenti.

Rivela codici oscuri,

misteri di vita e di morte,

d’inganno e d’amore,

sottomissione e ribellione.

Ora, stanca, si posa

sull’agognato mare.

Dal profilo del Vulcano

il nuovo giorno ormai

sta per arrivare.

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