Quando sono arrivata a Mombasa era notte, eravamo in 4 io, marito e due nostre amiche. Dopo molte ore di volo la stanchezza era davvero tanta e non vedevo l’ora di arrivare al resort. Il taxi ha impiegato più di due ore per arrivare a Watamu, attraversando strade piene di buche, dossi e tutte frastagliate. Era tutto buio e si vedevano in continuazione persone che correvano da una parte all’altra, che salivano e scendevano dalle moto senza che tu potessi capire nulla (solo dopo ho scoperto che erano i taxi locali, le persone che hanno la fortuna di possedere un mezzo di trasporto tra moto e tuc tuc, li utilizzano trasportando gli altri a qualsiasi ora del giorno e della notte). Era tutto così strano, così confuso, migliaia di occhi che spiccavano nel buio della notte. Eppure c’era qualcosa di magico che sarebbe successo, lo sapevo. Appena arrivati al resort l’accoglienza è stata impeccabile, asciugamani morbidi e profumati per rinfrescare le mani e poi finalmente il letto per riposare.
Al risveglio la luce del sole è entrata nella stanza ed è così che ha preso vita un mondo meraviglioso. Lo spettacolo della vegetazione, dei fiori, degli animali e la moltitudine dei colori degli abiti locali, per poi aprirsi davanti agli occhi l’immensità dell’Oceano Indiano che bagnava la spiaggia di sabbia bianca come borotalco. Ero giunta in paradiso, ma non era ancora nulla. Il cibo era buonissimo, avevamo pesce fresco tutti giorni, il loro tipico pane “chapati”, che sembra un specie di piadina, ed il riso cotto nel latte di cocco erano una delizia.
Ma non ero arrivata fin laggiù per trascorrere le mie giornate in spiaggia a bere succo di mango fresco, quindi subito abbiamo organizzato l’escursione per andare nella savana. Due giorni completamente immersa nella natura, con gli animali che vivono allo stato brado, che cacciano da soli il proprio cibo e puoi vedere delle povere gazzelle preda dei leoni, oppure come è accaduto a noi un povero elefantino annegato in una pozza d’acqua per bere e finito vittima delle iene. Uno spettacolo crudele, ma così vero. Di notte nel lodge si sentivano tutti i versi degli animali che ci circondavano, ma lo spettacolo più bello era quando la sera famiglie di giraffe o i mastodontici elefanti africani, con la pelle del tipico colore rosso della terra della savana, venivano al laghetto di fronte per bere, come se fosse una processione, in ordine dal più grande la più piccolo.
Alla fine dei due giorni di savana dopo aver visto ogni sorta di animale tra gazzelle, antilopi, gnu, iene, ippopotami, bisonti, leopardi, zebre a bordo di jeep super organizzate e piloti molto esperti, iniziai a chiamare i cuccioli di leone e leonesse (in swahili “simba”) i miei “simbini”.
Ma è all’uscita dalla savana, di rientro al nostro resort, che inizia il momento che aspettavo, per il quale avevo deciso di partire. Dalla strada si intravedeva la trafila di villaggi nascosti dalla vegetazione e così tanti bambini iniziavano ad uscirne per aspettare sul ciglio della strada il passaggio delle jeep dei turisti, nella speranza che gli venisse regalato qualcosa. Già prima di partire avevo preparato due bagagli da portare, uno piccolo a mano con poche cose per me ed una grande valigia da stiva, che ho riempito di vestiti, biscotti, caramelle e matite. Prima di partire per l’escursione nella savana avevamo chiesto alla nostra guida dove poter comprare sacchi di farina e fagioli, da consegnare ai locali.
Non potrò mai dimenticare il sorriso dei bambini che ci ha accolto al nostro passaggio, erano tutti scalzi, le canzoni che cantavano per noi, e gli abbracci lunghi e quegli occhi grandi e luminosi. Mentre gli davamo i biscotti, le caramelle e i pacchi di fagioli e farina, aspettavano in fila come dei “piccoli soldati”, ed appena ho iniziato a consegnare gli abiti le loro braccia si sono spalancate e hanno iniziato ad esultare di gioia dicendo “wow” ad ogni abito che prendevano. Erano felici! Ma man mano che camminavamo loro aumentavano e le mie borse si svuotavano troppo in fretta, era tutto troppo poco. Ero avvilita, non potevo fare di più ed un certo punto dalla jeep mi hanno tirato su gridando “Adriana basta non puoi fare più di quanto hai fatto”. Il battito del mio cuore in quei momenti era così accelerato che ho creduto che mi scoppiasse, ero così felice di essere lì e non avrei voluto andare in nessun altro posto al mondo. Prima di partire mi sono inchinata davanti a tutte quelle persone che hanno accompagnato la mia esperienza, perché ero io a dover ringraziare loro per tutto ciò che mi avevano regalato.
Posso dire con certezza che il “mal d’Africa” esiste e non si può spiegare facilmente, perché è un’insieme di parole, immagini, profumi, sensazioni di dolore e gioia contemporaneamente. Io ve lo descrivo con le prime parole che ho scritto quando sono tornata a casa e che ho impresso nel mio cuore per sempre:
C’è un posto nel mondo dove il tempo non si è mai fermato e quando arrivi ti senti subito a casa. C’è un posto nel mondo dove la notte è nerissima, ma le stelle brillano più che in qualunque altro luogo. C’è un posto nel mondo dove la terra è rossa come fuoco che arde il cuore e gli animali possono vivere liberi. C’è un posto nel mondo dove i bambini profumano di speranza e un sorriso vale più di tutta la tua vita. C’è un posto nel mondo dove gli occhi dicono più di mille parole. C’è un posto nel mondo … si chiama AFRICA! Asante sana miei piccoli grandi uomini, mi mancherete da morire. Dio vi benedica! Hakuna matata!